Ci sono tre cose che possono essere considerate importanti. Da un lato c’è la situazione politica attuale che ha provocato l’obbligatorietà dello schieramento: le scelte culturali e politiche hanno così originato un dualismo, un contrasto di fondo. La situazione deriva quindi da quella che io definisco “la doppiezza della cultura” e in particolare di quella di sinistra. La doppiezza non è solo ideologica ma anche di comportamento e ha radici molto lontane, che risalgono agli anni Cinquanta. L’atteggiamento teorico di molta parte della cultura di sinistra ufficiale non regge più. L’ipotesi politica e strategica della sinistra storica - forse dal ‘68 in poi - è sempre stata doppia: da una parte l’accettazione della struttura capitalistica della società borghese e del quadro politico; dall’altra il suo rifiuto e la sua critica. Se consideriamo storicamente questo trentennio di storia ci accorgiamo che esso si chiude con il 16 marzo 1978, cioè col rapimento Moro. Si è ormai voltato pagina, si apre un periodo particolarmente grave, si inizia forse ufficialmente il “gulag” italiano. Il dopo-Moro è quindi una svolta, senza per questo attribuire alla personalità di Moro molta importanza. Rivedendo comunque nel trentennio passato le grandi forze politiche come il Pci e i partiti di rappresentanza di classe, ci accorgiamo che sono sempre vissuti nella doppiezza. Gli intellettuali di sinistra e i marxisti italiani hanno pensato il partito come strumento di organizzazione e di rappresentanza della classe operaia e delle masse popolari: da un lato il partito è una rappresentanza politica, dall’altro – com’è nella concezione del marxismo italiano e forse in modo contraddittorio - è invece la prefigurazione di un’organizzazione sociale complessiva, diversa e antitetica al sistema sociale e all’organizzazione del lavoro, antitetica anche alle strutture politiche e alle istituzioni. Mi sembra perciò che si sia arrivati a una crisi del concetto di partito perché se prima era stato teorizzato in un modo, nella realtà è stato realizzato diversamente. Se consideriamo il concetto di democrazia esso va inteso in senso borghese-parlamentare, solamente rappresentativo o in senso socialista? Lo stato è uno Stato di classe o è uno stato di tutti? “Bisogna accettare lo stato democratico in quanto è uno stato di tutti oppure bisogna rifiutare e trasformare lo stato perché è di classe e non democratico?” Insomma siamo arrivati a un punto in cui bisogna farsi delle domande radicali a cui non si possono dare delle risposte già date. Il fatto che il marxismo non si sia posto delle domande di fondo sulla sua situazione di doppiezza e sul ruolo di una cultura in grado di fornire un’analisi delle società capitalistiche e un’ipotesi strategica di trasformazione, ha portato a un ostacolo insuperabile: come superare questa doppiezza senza doppiezza? Per rispondere alla domanda iniziale bisogna rimettere in discussione la tradizione culturale marxista e di sinistra perché di fatto sono in crisi gli strumenti di organizzazione politica. Bisogna quindi ridiscutere i rapporti col sistema politico e le istituzioni borghesi, il parlamento, la democrazia, la rappresentanza. Siamo ormai in una situazione politica gravissima e ci poniamo il problema della radicalizzazione che non è più la radicalizzazione tra le classi e la società, tra la società rappresentata dallo Stato e lo Stato, ma è diverso. I fenomeni e i movimenti di dissenso, che io chiamo di “autonomia del sociale”, sono proprio il segno della crisi della strategia e dell’analisi marxista tradizionale. L’atteggiamento fondamentale deve perciò toccare l’analisi dei “sintomi” di questa crisi. La sinistra storica invece ha cercato di sopprimere i sintomi, ha cercato di non ascoltare i quesiti che pongono questi sintomi del dissenso sociale, anzi, li ha riferiti alla norma e a un codice ideologico che rappresenta, poi, la strategia tradizionale. Ha fatto di tutto per non tenerne conto. Bisogna quindi chiedersi di che cosa è sintomo il dissenso sociale, bisogna spingere l’analisi fino alle forme attuali della pratica della violenza, e del mezzo della violenza come mezzo di lotta, e anche del terrorismo. Quando parliamo di terrorismo tendiamo, identificando il terrorismo come crisi della democrazia (che poi è una democrazia borghese che la sinistra storica accetta come tale), a impersonarlo nella causa della crisi mentre in realtà è l'effetto: è il sintomo generale della crisi della società che bisogna interpretare. Identificando in quella violenza la violenza della società oggettiviamo, al di fuori di noi, delle nostre responsabilità di azione e di analisi mancata, le ragioni di questa crisi. I sintomi di questi fenomeni di autonomia sociale sono sostanzialmente tre: il primo è quello della crisi della valorizzazione capitalistica, e quindi la crisi del lavoro o meglio di quello che il marxismo chiama il valore-lavoro. Il secondo è quello della crisi del modello socialista-comunista come alternativa: non per niente si è parlato di senso di doppiezza. Il terzo è il sintomo di qualcosa d’altro, significante un rapporto sociale, politico e culturale diverso rispetto alla società capitalistica. Questo non è soltanto la doppiezza, è una doppiezza che conduce all'estraniazione, all’espropriazione dei presupposti e delle finalità del socialismo e del comunismo. Forse non sappiamo cosa significhi socialismo. Ormai io credo che anche la rivoluzione sia una parola su cui continua il senso della doppiezza. Non sappiamo qual è la nostra realtà perché siamo quasi in mezzo tra uno stato che non esiste, pur esistendo ufficialmente, e un antistato invisibile e non sostitutivo. In questa situazione si chiede all’intellettuale l’impegno e l’adesione, l’identificazione con lo stato: l’intellettuale diventa la mediazione con l’esistente. Dall’altro invece c’è l'atteggiamento dell’estraneità, cioè il non identificarsi con lo Stato che comporta la criminalizzazione ideologica e, a volte, reale. L’intellettuale si trova perciò in una posizione di schizofrenia, condannato alla criminalizzazione nel caso in cui non si identifichi. I fenomeni di autonomia sociale sono sintomo della crisi del ruolo dell’intellettuale, cioè della funzione di mediazione dell’intellettuale. Egli rispetto alla contraddizione dei soggetti sociali non ha alcun privilegio, non può considerarsi un separato. L’intellettuale, dal momento che è inserito nell’esistente - non fosse altro perché la sua espressione è il linguaggio e non la pratica - assume sempre un atteggiamento critico. Non è però detto che il linguaggio non sia una pratica: in realtà è la pratica del linguaggio che non s’identifica con la pratica politica. Abbiamo fatto in 30 anni solo discussioni inutili senza mai interrogarci sui problemi di cultura e di politica. Ciò che ora è in crisi è la funzione critica dell’intellettuale, la sua autorità come mediatore critico dell’esistente. In questo momento non è più critico perché la sua funzione è diventata specifica, privilegiata: per questo gli si chiede la mobilitazione e l’impegno. Quando non si chiede all’intellettuale di identificarsi lo si accusa di estraniarsi ma l’invocazione e l’accusa sono le due facce dello stesso errore: anche l’estraneità è una forma della doppiezza che ci portiamo dietro. Io farei la storia dell’intellettuale distinguendolo in due tipi: organico e disorganico. Se pensiamo di fare una storia dell’intellettuale come nei manuali, nei dibattiti, nei convegni, intollerabili, perché sono una specie di black out di ciò che è stato, noi vedremo un alternarsi di organicità e disorganicità. È la riproduzione della logica dell’identico nella differenza. Oggi siamo arrivati alla figura dell’intellettuale come funzione produttiva, come tecnico delle comunicazioni e dei servizi sociali. La questione dell’intellettuale rischia cioè di essere un'invenzione, nel senso che l’intellettuale è morto come professionalità, istituzionalità e come funzione di mediazione politica.



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